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Dintorni

Santuario della Madonna del Frassine


Il Santuario della Madonna del Frassine, di recente restaurato, è il principale della Diocesi di Massa Marittima-Piombino.

Secondo la leggenda, la statua della Madonna fu portata dal vescovo Regolo con i santi Giusto, Felice, Cerbone, Clemente e Ottaviano in Val di Cornia, per sfuggire alle persecuzioni in Africa settentrionale, dove combattevano gli Ariani. Giunto a Populonia, San Regolo risalì con la statua il corso del fiume Cornia e visse da eremita in un bosco vicino all'attuale Frassine, fino al 1 Settembre 545, quando per ordine del re Totila venne condannato a morte.
Nei secoli successivi della statua della Madonna si presero cura i monaci dell'Abbazia di San Pietro in Palazzuolo presso Monteverdi, fino al 1252, anno in cui i Pannocchieschi incendiarono il convento. Uno dei monaci, fuggendo nel bosco, portò con sé anche la preziosa statua, ma vinto dalla stanchezza la nascose tra i rami di un frassino.

La statua fu creduta distrutta nell'incendio per circa un secolo, fino a quando un mandriano di nome Folco, portando il bestiame a pascolare nella Val di Cornia, osservò che uno dei suoi vitelli lasciava al mattino la mandria, per poi tornare alla sera.
Incuriosito Folco seguì il vitello che entrava nel bosco e lo vide inginocchiarsi ai piedi di un frassino, tra i cui rami scorse intatta la statua della Madonna.
In seguito al miracoloso ritrovamento, il gran numero dei pellegrini venuti a manifestare alla Vergine la propria fede e devozione, fece sì che intorno a quel frassino fosse costruita la prima cappella, divenuta poi santuario.


Il santuario della Madonna del Frassine, ancora mèta di pellegrinaggio, soprattutto nel giorno della sua festa che ricorre il 25 aprile, custodisce al suo interno la miracolosa statua lignea raffigurante la Madonna, che la tradizione popolare vuole scolpita in cedro del Libano di San Luca.

Il tempio originario, sorto come cappella e successivamente ampliato, deve il suo aspetto attuale ad un restauro del 1974, preceduto a sua volta da un intervento del 1934, promosso dal Vescovo di Massa Marittima e dal principe Piero Ginori Conti. Attualmente il tronco di frassino, intorno al quale sorse il primitivo nucleo del santuario, sorregge ancora la sacra immagine della Madonna che può agevolmente essere osservata da una porticina posta dietro l'altare maggiore.

In questa stessa area è visibile un piccolo "museo dei miracoli", costituito da un notevole numero di tavolette dipinte, risalenti al XIX secolo, che aprono un interessante spaccato su alcuni aspetti della religiosità popolare della Val di Cornia.

Ben sette di queste immagini dipinte recano dipinto il nome dell'autore o un suo monogramma; questi sono la testimonianza dell'esistenza in questo territorio di una specifica professionalità artigianale, impegnata nella realizzazione di questo particolare tipo di arte.
Dal punto di vista tipologico, le situazioni rappresentate sono strettamente legate all'ambiente di vita e di lavoro locale: incidenti causati da improvvisi crolli nei cantieri edili oppure causati dal bestiame utilizzato nei lavori rurali. Anche gli incidenti stradali sono ampiamente rappresentati, come nella tavoletta votiva di un anonimo del 1945, dove è rappresentato un uomo calpestato da un cavallo.

La Chiesa di Santa Croce


Poggio e chiesa a circa 6 km ad Est di Monterotondo, prossimo alla S.S. 439 Sarzanese-Val d’Era, con diramazione su sentiero al km 146,6. L’etimo deriva dalla dedicazione alla reliquia della croce di Cristo, festività cadente il 3 di Maggio. In epoca medievale il toponimo risultava come Monte Beni.

La chiesa di Santa Croce è quanto sopravvive di una realtà del XIII secolo che venne distrutta a causa di battaglie del XIV secolo tra Siena, Massa Marittima e Volterra per l’ambìto controllo delle miniere di metalli preziosi del comprensorio.
Dal testo del Petrocchi (1900) risulta nel 1273 un Convento dei Guglielmiti Eremitani sotto la regola Agostiniana sul ‘Monte di Bene’.
Un documento del 1323, citato anche dal Repetti (1839), conferma la distruzione del cenobio a seguito degli eventi bellici; i religiosi furono costretti a trasferirsi presso Gerfalco, abbandonando definitivamente la vecchia sede e vendendo quanto rimaneva dell’edificio e le pertinenze al Comune di Massa.
Nel nostro territorio è accertata la frequentazione di S. Guglielmo, monaco eremita, fondatore dei “Guglielmiti”. In uno dei suoi innumerevoli viaggi aveva effettuato un pellegrinaggio in Etruria, seguendo le vie della devozione a s. Pietro apostolo, e toccando Montieri e Sasso, ove soggiornò a lungo.
Il senso di questo monastero, costruito in un luogo oggi così isolato, oltre allo specifico ordine degli Eremitani, e del ricordo del santo, potrebbe essere ricondotto anche agli eventi relativi a questo poggio. Infatti numerosi storici, nonché studi di vari geologi, riferiscono di una intensa attività estrattiva svolta su questo monte che lo ha lasciato traforato in più punti; qui furono impegnati un gran numero di minatori a cui certamente i monaci prestarono il conforto religioso, ma forse si prodigarono anche nelle cure fisiche agli infermi.


Difatti risulta da un testo del Maffei (1) (riscoperto e divulgato dal Marrucci 1990) che ancora a metà del XVII secolo presso il Monte di S. Croce esistevano diverse “...buche donde si cava la miniera dell’oro e dell’argento ...”; tuttavia, per quanto riguarda il periodo di nostro interesse, molto anteriore a questo, sempre il Maffei afferma “... ed io ho veduto alcuni istrumenti antichi di locazioni fatte di beni di questo luogo dai Vescovi di Volterra cum Aurifodinis et Argentifodinis.”, che, per i vari riferimenti storici, sono attribuibili al XIII secolo.
Quanto all’etimo riteniamo che vada rigettata l’interpretazione di ‘Monte di Bene’ (o ‘Beni’ come indicano altri autori) quale “... luogo di suffragio per i defunti della famiglia Pannocchieschi ...” (sostenuta dal Santi (1996) senza alcuna prova a favore), verso un più concreto ‘Monte dei Beni’ riferito alle ricchezze materiali derivanti dalle miniere, così come si evince dal testo del Maffei e dalla semantica dell’epoca.
D’altronde, per chi abbia una seppur minima dimestichezza dei conti Pannochieschi, e delle loro efferate gesta, riesce quantomeno ‘insolito’, se non ‘unico’, un luogo di suffragio per defunti, benché della loro stessa famiglia.
In merito alle escavazioni, l’epoca di inizio, con buona probabilità, ha origini arcaiche; la breve distanza da Cugnano (vedi scheda relativo), già sito minerario attivo nell’età del bronzo, nonché i toponimi dell’adiacente fiume Pavone (dall’etrusco Pava) e del piccolo villaggio di Mistenne (dall’etrusco Mestles), ed infine le antistanti Cornate, nonché il limitrofo Montieri, inducono a considerare il monte di S. Croce già sfruttato dagli indigeni cercatori di metalli in ere preistoriche.

L’edificio


La chiesa sorge a 732 m s.l.m., pressoché sommitale al poggio, al termine di un sentiero che si separa sulla sinistra dall’arcaico collegamento viario tra l’attuale Montebamboli, Cugnano ed il comprensorio estrattivo al di là del Pavone con i siti di Montieri e Gerfalco, verso Est, e Montecastelli e Rocca Sillana, verso Nord.
La costruzione è isolata ed in buone condizioni poiché in epoca recente (1984) il comune di Monterotondo lo ha acquisito dalla proprietà privata ed affidato in gestione al GRSNA che ha effettuato ripuliture, opere di restauro conservativo, principalmente relative al tetto e riaperto il sentiero di accesso.
L’edificio tardoromanico, piccolo, ma grazioso, è ben conservato e, benchè spoglio, ha egualmente un suo fascino per la posizione solitaria, immersa nel bosco, e per le linee architettoniche equilibrate. La struttura è a pianta rettangolare di circa 6 x 10 m, a navata unica senza abside, realizzata con conci squadrati di pietra calcarea locale, messi in opera con precisione con pochissima malta; secondo le tradizioni religiose dell’epoca, l’ingresso è orientato ad occidente mentre l’altare ad oriente; il tetto è a capanna. Sul fronte una modesta gradinata in pietra dà accesso al portale con architrave sormontata da una cornice a tutto sesto con dentelli; al di sopra è presente una piccola apertura lucifera a forma di croce. Sulla parete posteriore e su di una laterale sono realizzate due strette monofore a doppia strombatura.
Sempre sul lato destro si riconosce la caratteristica ‘porta del morto’, passaggio angusto, tipico di area tosco-umbra, così chiamata poiché funzionale al solo transito delle bare; normalmente murata, e riaperta per queste rare occasioni.
All’interno la volta è a botte, caratteristica davvero inconsueta nel panorama degli edifici religiosi del territorio; le pareti si presentano con un paramento in blocchi di pietra squadrata e levigata, analogo a quello esterno; un gradino delimita la zona che accoglie l’altare, realizzato anch’esso in pietra, di linea essenziale e di epoca recente. Poggia sull’altare e sulla parete di fondo una grande vetrina in legno lavorato con decorazioni; all’interno è custodito un Cristo ligneo di buona fattura, di autore ignoto, di epoca imprecisata, tuttavia non più recente del XIX secolo.
Sulla parete destra spicca una sobria lapide grigia, forse in pietra serena, enigmatica quanto al contenuto che così recita:
“Alla onoranda memoria di Luigi Bartolini di Gerfalco defunto di anni 58 il 19 settembre 1855 questa lapide pose la pietà degli orfani figli della derelitta consorte. Qui in luogo da te prediletto o pio Luigi niun ti turbi il sonno dei giusti come su in cielo dove Dio ti chiamava la tua gioia fia la gioia degli angioli.”
L’oscurità del messaggio è connessa alla mancanza di documentazione circa l’intestatario, il riferimento alla probabile sepoltura in loco, le motivazioni di questa scelta e l’autorizzazione relativa dei responsabili ecclesiastici.
Comunque attesta la frequentazione di questo luogo di culto da parte degli abitanti di Gerfalco intorno a metà del XIX secolo, di cui si parla oltre.
Adiacente al lato destro della chiesa, secondo le rigide regole monastiche medievali, sorgeva il cenobio di cui sono leggibili solamente i ruderi delle mura perimetrali, con un alzato di circa un metro.


Le tradizioni


La festività di S. Croce nel calendario ecclesiastico cade il 3 di Maggio, e gli anziani affermano che qui in tempi passati venisse celebrata una festa a tale data o nella prima domenica successiva. Tuttavia in epoche recenti gli abitanti di Monterotondo e Gerfalco vi effettuavano un pellegrinaggio il 15 di Maggio ed il 14 di Settembre. La tradizione religiosa prevedeva la messa di mezzogiorno ed al vespro una breve processione fino alla croce eretta in posizione sommitale al poggio; le funzioni venivano officiate dal parroco di Gerfalco.
Era consuetudine effettuare il pasto di metà giornata e serale con le vivande portate da casa, scambiandosi ed offrendo i cibi tra i convenuti. Non mancava l’aspetto ludico-sociale realizzato con canti e balli al suono di organetti (progenitori delle attuali fisarmoniche).
Una ulteriore occasione di riunione era offerta dalla ‘Festa dei cacciatori’ che ivi convenivano il 15 o 16 di Agosto.
Nello Statuto del Comune di Monterotondo del 1578 esiste una precisa norma (Dist. II, 3) che prevede l’obbligo di osservanza della festa di Santa Croce; ciò testimonia il rilievo attribuitole da questa comunità nei secoli passati.
Tra l’altro il numero progressivo della norma così basso e l’inserimento di questa festività tra altre religiose di maggiore rinomanza (Natale, Epifania, Pasqua, la Resurrezione, san Lorenzo, Ognissanti etc.) suggerisce che la tradizione presso i monterotondinesi fosse molto antica e sicuramente anteriore a quella della Madonna del Frassine, assente nella norma qui citata. Ciò trova giustificazione anche dalle origini arcaiche di tradizioni similari che vengono illustrate nel prosieguo.

Origini e valenze


Il 3 di Maggio è la ricorrenza del ritrovamento della Croce di Cristo da parte dell’imperatrice Elena (*); nel medioevo costituiva una delle feste cristiane più significative, poiché collegata al clima di grande rilievo dato allora alle reliquie.
Fin da tempi antichi in questa data nelle campagne era tradizione confezionare piccole croci che venivano piantate nei campi o negli orti, oppure si teneva una processione fino ad una data croce; tutto ciò mostra un evidente significato apotropaico, cioé intendeva ottenere la protezione dalle calamità, dalle pestilenze e dalle carestie. Questi “para-guai” venivano poi recuperati all’epoca della mietitura.


Per quanto riguarda la tradizione dello scambio di cibi si può fare riferimento a R. Valeri (in De Ferrari-Niccolini 1998) per interpretarne il significato: “... In ogni società l’alimentazione non è volta soltanto alla soddisfazione di un bisogno fisiologico, ma è anche una forma di comunicazione, l’occasione di scambi e di atti ostentatori, un insieme di simboli che costituisce per un gruppo un criterio di identità. In nessuna società si mangia qualunque cosa, con qualsiasi persona o in qualsiasi occasione. ...”; risulta evidente che l’aspetto rituale della nostra festività vada letto come uno strumento di coesione sociale, di rafforzamento di legami, di trasmissione culturale; valenze queste, fondamentali nelle società agro-pastorali sia per l’identificazione dei ruoli sociali, che quale scambio di esperienze e, non ultima, quale occasione di conoscenza tra i giovani in età matrimoniale; feste che rappresentavano vere valvole di sfogo in tempi in cui il lavoro era un’attività a tempo pieno e senza orari.
D’altronde il cibo stesso, per quanto povero e semplice, trasmette sempre una specifica identità culturale di appartenenza a determinati gruppi sociali, differenziati proprio da alcuni ingredienti o dalla morfologia; esempio emblematico è costituito dal pane, con forme ed ingredienti mutevoli in funzione della latitudine, delle tradizioni civili e religiose, delle contaminazioni straniere, degli ingredienti di base disponibili, e persino della destinazione di uso (immediato, ritardato, sedentario, nomade, per zuppe etc.); sebbene in maniera insospettabile, la semplice analisi delle caratteristiche del pane delinea un preciso identikit del gruppo umano produttore, della sua storia, dell’organizzazione sociale, delle risorse economiche e delle tradizioni.
Come spesso si riscontra, questa festività cristiana realizzò un sincretismo con una precedente, di origini ben più datate e così radicata ed assimilata, da non poterla evitare o modificare. La salita rituale al monte nel periodo dei primi di Maggio può essere identificato nelle società arcaiche agro-pastorali e nella successiva festa celtica di Beleno (o Beltane), di cui è rimasta traccia nel Calendimaggio, ancora molto vivo fino al secolo scorso proprio in Toscana. Presso tutte queste comunità erano festeggiate le scadenze dell’anno astrale come i solstizi e gli equinozi, a cui si attribuivano significati magico-religiosi; tuttavia anche altre date costituivano un riferimento annuale poichè strettamente connesse all’economia pastorale: la partenza ed il ritorno dalla transumanza, il periodo della nascita degli agnelli, la marcatura del bestiame, etc..
Proprio in questo periodo era usanza salire con le pecore verso i freschi pascoli di montagna, lasciando le comode abitazioni a valle; i pastori con i congiunti raggiungevano le prime alture, ove si teneva un raduno, ed un ultimo lauto pasto comune rappresentava un saluto ed un augurio di buon viaggio: vero e proprio ‘viatico’ per il lungo periodo di separazione e di sacrifici.



Un fatto di cronaca


Durante una festa dei cacciatori nel periodo del regime fascista, si verificò uno scontro con squadristi provocatori. Sono controversi sia l’anno, 1921 o 1922, che la versione dei fatti, tuttavia fortunatamente non finì in tragedia.
E’ probabile che la festa non fosse gradita ai gerarchi locali che vi ravvisavano un assembramento di anarchici e su tale presunzione avevano esercitato pressioni perché non si svolgesse ulteriormente questo raduno.
Sembra che al vespro, prima della processione, mentre il sacrestano chiamava i fedeli con il suono della campanella, alcune persone di idee politiche avverse cominciarono ad offendersi, a scagliarsi sassi, ad impugnare le armi: un certo Frullani, socialista, fu veduto prendere il fucile da un albero a cui era appeso ed allontanarsi; si sentì poi uno sparo e si venne a sapere che era rimasto ferito ad una gamba; un tale Ottorino Grassi ne uscì con ferite alla testa e si rifugiò da Lelo Mazzolli.
Nella notte successiva una squadra di fascisti andò girando per le campagne alla ricerca del Grassi per bruciargli la casa; trovata l’abitazione però i fascisti non diedero seguito alle minacce poiché dissuasi dal proprietario del casale, tale Bartolini, che evidenziò la sproporzione e l’errata destinazione della punizione. Fatta una breve perquisizione gli squadristi se ne andarono senza ulteriori conseguenze. L’evento ebbe anche un risvolto giudiziario, con un regolare processo, che peraltro si risolse con un non luogo a procedere.

Museo

Il Museo della Geotermia di Larderello
Il Nuovo Museo della Geotermia di Larderello, inaugurato da Enel Green Power nell’ottobre del 2013, presenta un percorso museale interattivo che, attraverso dieci sale con una voce narrante, conduce il visitatore alla scoperta della geotermia dalle terme etrusco romane allo sfruttamento della risorsa per usi chimici con l’estrazione del boro e il primo “paese fabbrica” in Italia, per poi arrivare al De Larderel e al suo brevetto della calotta che consentiva di utilizzare il calore del vapore per gli usi industriali. Procedendo lungo le sale si arriva alle prime perforazioni per l’estrazione del fluido geotermico e alla loro evoluzione nel tempo; bellissima la “parentesi” con un viaggio al centro della terra che, attraverso un video 3D, proietta il visitatore nei serbatoi geotermici laddove tutto comincia. Il Principe Ginori Conti e la scoperta dell’utilizzo elettrico della geotermia, con l’accensione della prima lampadina nel 1904, a cui nel 1913 segue l’entrata in esercizio della prima centrale geotermica completano il cammino geotermico che nelle ultime sale del museo offre anche l’opportunità di approfondire e conoscere nel dettaglio le tecnologie e le attrezzature meccaniche utilizzate, nonché di avere una panoramica della geotermia nella sala dei plastici.
All’esterno della struttura un’area turistica attrezzata dà modo ai turisti di sostare per un picnic o per una foto ricordo con il “lagone” del 1827 alle spalle e il tipico paesaggio geotermico sullo sfondo.


La Geotermia ed i suoi segni sul territorio
Oltre che con il percorso museale, i segni rinnovabili della geotermia sono ben visibili all’esterno con gli argentei vapordotti inseriti nel contesto paesaggistico, il villaggio Enel Green Power e le Officine di Larderello, le 33 centrali geotermiche con le caratteristiche torri di raffreddamento dislocate tra le province di Pisa, Siena e Grosseto, i pozzi di perforazione, i numerosi siti di manifestazioni naturali, i percorsi naturalistici, i sentieri geotermici, il Parco delle Biancane a Monterotondo Marittimo (Gr) e molti altri luoghi che raccontano la Toscana geotermica: tessere di un grande mosaico che, attraverso molteplici suggestioni, consentono al visitatore di rendersi conto della storia ma anche di un presente sostenibile grazie all’opera dell’uomo che ha saputo utilizzare la risorsa senza depauperarla e anzi portando valore e sviluppo economico, energetico, sociale e culturale al territorio e alle comunità che ivi risiedono.

Orari di Apertura
Dal 16/03 al 31/10: 
aperto tutti i giorni dalle 9:30 alle 18:30.
N.B. Ultimo accesso ore 18:00.

Dal 01/11 al 15/03: 
aperto tutti i giorni (escluso il lunedì) 
dalle 10:00 alle 17:00
N.B. Ultimo accesso ore 16:30.

Massa Marittima

Massa Marittima è una città d’arte adagiata tra le Colline Metallifere, circondata dalla campagna maremmana e ricca di bellezze storiche, ambientali ed architettoniche ereditate da un florido passato. Dal borgo medievale, fino alla città nuova, si possono percorrere i vicoli antichi e ripidi che si intrecciano nel centro storico e salgono fino alla parte alta del borgo; qui è facile trovare angoli suggestivi e caratteristici e punti panoramici che si affacciano a valle fino al mare. Molti dei luoghi più significativi, sono racchiusi dalla piazza della città: la meravigliosa Cattedrale di San Cerbone, il Palazzo Comunale, le Fonti che cingono il famoso affresco dell’Abbondanza e il Palazzo del Podestà sede del museo archeologico.
Salendo in Città Nuova si incontrano gli edifici risalenti al XIII secolo: il complesso di San Pietro all’Orto, con il chiostro di Sant’Agostino, la Torre del Candeliere e la Fortezza Senese. Il turismo sta diventando l’attività trainante della cittadina: oltre al patrimonio storico-monumentale, ai musei, la città offre varie opportunità escursionistiche, dal trekking, al ciclo-turismo, all’equitazione.


La città è circondata dalla tipica vegetazione del luogo: dalla macchia fitta e bassa, ai cespugli di alloro e ginestra, fino ai fusti dei lecci e dei corbezzoli.

Particolarmente interessanti e suggestivi, per i turisti ed i visitatori, i principali eventi che si svolgono ogni anno nella città: il Balestro del Girifalco, il Toscana Fotofestival, Lirica in Piazza e Calici sotto le stelle.

Il misterioso albero dei peni e dell’abbondanza, un ampio dipinto parietale realizzato nel XIII secolo a Massa Marittima, nasconde un significato celebrativo di natura politico-amministrativa. Un approfondito studio realizzato da Maurizio Bernardelli Curuz -e pubblicato da Stile arte – scioglie il mistero dell’opera che rappresenta, tra l’altro, come una sorta di albero natalizio, una pianta sulla quale, a metà tra l’addobbo e la libera crescita di singolari frutti, appaiono ingombranti organi sessuali maschili in erezione. L’affresco, oggi conosciuto come l’albero dell’abbondanza, non sarebbe altro che un’opera ideata per celebrare le conseguenze politiche della costruzione dell’ampia fonte pubblica all’interno delle mura cittadine – sulle cui pareti è stato proprio realizzato il dipinto –  lavoro che avrebbe portato pace e prosperità al centro toscano. Una celebrazione del buon governo ghibellino insomma, commissionata dal podestà Ildibrandino Malcondine da Pisa, che governava sotto l’egida imperiale.

Montieri

Incastonato nel verde intenso di estesi boschi di querce, faggi e castagni, Montieri è adagiato sul fianco settentrionale del monte che porta lo stesso nome. Le tumultuose vicende storiche che hanno percorso gli stretti vicoli sul dorso della montagna sono legate alla ricchezza di giacimenti minerari.
Tra il 1100 e il 1300 Siena e Volterra si contesero il territorio di Montieri per sfruttare le miniere d’argento, di rame e piombo. L’esaurimento dei giacimenti minerari condusse a un generale decadimento del paese, dal XV secolo le attività economiche furono costituite dall’agricoltura, dall’allevamento e dallo sfruttamento dei boschi.
Camminare per le vie del centro storico è come ripercorrere la storia medievale di questo piccolo borgo, impreziosito dalle sue case torri, dal cassero del castello, dalla chiesa di San Giacomo, dal cui sagrato si gusta il panorama verde intenso, tipico delle Colline Metallifere.

Il Merse e le Roste
Fin dall’antichità la zona nei dintorni di Boccheggiano è stata oggetto di esplorazioni minerarie per la presenza di estesi giacimenti a solfuri.
I giacimenti,sono impostati sullo sviluppo in profondità della dislocazione nota come “faglia di Boccheggiano” la quale, nella sua porzione più prossima alla superficie, ospita il filone a quarzo e a solfuri misti di rame, zinco, piombo e ferro coltivati in passato nella miniera del Merse e poi sfruttati fino a gli inizi degli anni novanta, nello specifico per l’estrazione del bisolfuro di ferro (pirite).
Il percorso è situato a metà strada tra i paesi di Montieri e Boccheggiano.



Camminando per circa 20 minuti, sulla sponda sinistra del fiume Merse, si giunge alle Roste, conosciute anche come i “calanchi rossi del Merse”. Questo sito dalle morfologie surreali è il risultato del rimodellamento da parte degli agenti atmosferici degli imponenti monti di scorie di colore rosso derivati dalla lavorazione dei solfuri misti contenenti rame. Il minerale qui veniva lavorato secondo il metodo Conedera che prevedeva lo sminuzzamento manuale, l’arrostimento in loco ed il lavaggio dello stesso. Sono osservabili anche le gallerie di scolo utilizzate per quest’ultimo processo. La miniera del Merse, la quale forniva il materiale lavorato in questo luogo, venne abbandonata nel 1914.
Percorrendo il fiume in senso inverso è possibile osservare le laverie dismesse appartenenti alla miniera di Campiano, chiusa agli inizi degli anni novanta

La Canonica di San Niccolò
Sul versante nord-orientale del poggio di Montieri, sorge il complesso ecclesiastico della Canonica di San Niccolò, comprendente una serie di edifici disposti all’interno di un ampio pianoro in prossimità del fosso della canonica. 
Il sito è noto dai documenti scritti a partire dal 1133 ma lo scavo, ancora in corso, ha dimostrato l’esistenza di una chiesa risalente ad un periodo precedente. Nel XII secolo il complesso subisce una profonda ristrutturazione con la costruzione di una chiesa a pianta esapetala (ovvero provvista di sei absidi, esempio unico in Toscana) e alcuni edifici costruiti intorno ad uno spazio centrale aperto. E’ sempre in questo periodo che si costruisce un’ampia area artigianale nella parte settentrionale. A questa fase edilizia appartengono gli arredi e i decori architettonici di pregevole fattura. Nel XIII secolo il complesso subisce delle leggere modifiche con la costruzione di alcuni ambienti e di un chiostro nella parte centrale. L’intero complesso viene abbandonato alla fine del XIII secolo.
Il centro è legato al Vescovo di Volterra e attraverso questo luogo si gestivano  le attvità di estrazione e di trasformazione del minerale cavato nelle miniere del poggio (una delle quali dista solo alcune decine di metri dalla chiesa).
La particolare planimetria della chiesa e i ricchi arredi architettonici sono indizi dell’importanza anche simbolica del sito, espressione del potere e della capacità del controllo del territorio minerario da parte del suo committente, il Vescovo di Volterra.

Altre località

MASSA MARITTIMA 20 minuti

FOLLONICA 30 minuti

PUNTA ALA 45 minuti

ABBAZIA DI S.GALGANO 45 minuti

VOLTERRA 50 minuti

S.GIMIGNANO 60 minuti

ISOLA D'ELBA 1 ora e mezza

GROSSETO 45 minuti

SIENA 1 ora

PISA 1 ora

FIRENZE 1 ora e mezza