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Siti archeologici

Rocca degli Alberti

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1128 l’Abbazia di Monteverdi rivendica diritti su alcuni beni della “curtis” di Monterotondo e Chiesa di S.Martino.
Nel 1164 troviamo il castello proprieta’ dei Conti Alberti da Prato il possesso viene confermato da Federico Barbarossa.
Nel 1208 muore il Conte Alberto Alberti da Prato.
Nel 1209 (febbraio) un arbitrato di divisione tra i figli di Alberto Maghinardo e Rinaldo stabilisce le proprieta’ di Rainaldo nella parte meridionale della Toscana con castelli in Val di Cornia, val di Cecina e nel Massetano.
Maggio 1209 Rainaldo chiede protezione4 a Massa fa giuramento lui e tutti i cittadini di Monterotondo promettendo aiuto nei conflitti.
Il 27 novembre 1262 sindaco del Comune di Massa, acquistò le due metà del castello di Monterotondo, ciascuna per 1500 lire, da Ranieri di Manuello, conte d’Elci, e da Gottifredo fu Rinaldo.

Nel 1336 Massa consegna a Siena il Castello di Monterotondo, ma nel 1348, a causa della diffusione della peste nera, Siena riconsegna Monterotondo a Massa;

Nel 1359 Monterotondo ritorna ancora sotto il dominio Senese; infine nel 1376 Siena si vede costretta ad affidare il Castello agli Uomini di Monterotondo per le troppe spese di presidio.

La peste, che nel 1348 colpì pesantemente tutta la Toscana, e Siena in particolare, risparmiò, invece, Monterotondo.


Nel 1479 Monterotondo subì un assalto di squadre di cavalleria fiorentine che provocarono danni alla cinta muraria.

Nel 1552 vennero effettuati i restauri alle mura perimetrali a cura dell’architetto Bartolomeo di Bastiano Neroni, detto Il Riccio.

Il 26 ottobre 1554 Monterotondo combattè a fianco di Siena e venne assalita dalle truppe dei Medici, alleati con Spagna ed Austria, che persero 500 uomini, ma riuscirono a conquistare il Castello ed a distruggerlo; buona parte della popolazione fu uccisa. Il 7 dicembre il Comune di Monterotondo si sottomise al Duca di Firenze, pur continuando a far parte dello Stato di Siena.

Castello di Cugnano



Il Castello di Cugnano, sito archeologico di grande rilevanza nei dintorni di Monterotondo Marittimo, riveste un ruolo fondamentale nella storia del territorio delle Colline Metallifere. Cugnano è stato classificato diversamente durante le varie epoche storiche:  “Miniera” dagli Etruschi, “Villa” dai Romani, “Castello” in epoca medioevale e infine “Bandita”. Cugnano è un toponimo di origine latina. Tra l’80 e il 50 a.C., il Console Giulio Cesare incaricò il propretore Q. Orca Valerio di assegnare le terre conquistate ad ogni centuria di veterani, estratti a sorte con diritto ereditario.Nacquero così gli abitati di Libbiano, Bruciano, Lustignano e Cugnano, rispettivamente dai nomi dei veterani Livius, Aprusius, Listenius e Aconianus. 
Quanto alla nascita della miniera, si deve tenere in considerazione l’importanza centrale del rinvenimento di un rudimentale lingotto di rame attribuito all’età del bronzo (XXIII-IX secolo a.C.) che testimonia in maniera inconfutabile la sua attività in epoca etrusca. 
L’insediamento di epoca medioevale rappresenta invece un esempio emblematico di Castello Minerario, nato per la necessità di presidiare e sfruttare le risorse metallifere del territorio e abbandonato contemporaneamente al venir meno degli interessi economici legati all’attività estrattiva del rame e dell’argento.
Il primo riferimento storico di epoca medioevale riguardo all’abitato di Cugnano, compare nel Regestum Volterranum n. 45, relativamente ad un atto del Giugno 969 d.C., in cui i fratelli Giovanni e Willerado del Fu Everardo sono indicati come i possessori della “...villa de Cugnano”. 
Nel 1158 il Castello di Cugnano appartiene ai Conti Aldobrandeschi, famiglia lucchese di provenienza episcopale, che aveva sottomesso gran parte delle Marittime per sfruttare le risorse minerarie della zona.
Nel 1261 Fece Aldobrandeschi, figlio di Angilieri, dona al Comune di Siena la metà della miniera d’argento in suo possesso, scatenando la durissima reazione dei Conti Pannocchieschi, signori dell’adiacente Castello di Rocchette. Questi, avvertita la pesante espansione senese nel loro territorio, tentano di salvaguardare i propri interessi e incendiano il Castello prendendone subito possesso. 
Nel 1301 il Comune di Massa diventa proprietario delle ramiere e delle argentiere di Cugnano.
Dal 1335 il Castello di Cugnano segue le alterne vicende del Comune di Massa e viene progressivamente abbandonato.
Dal XV secolo le notizie relative a Cugnano riportano il nome di Bandita, termine che identifica un territorio di competenza abbandonato e annesso, di diritto o di fatto, ad un’altra comunità. All’epoca il territorio di Cugnano veniva utilizzato come pascolo in affitto.
Il resoconto di una visita pastorale nell’abitato nel gennaio del 1414, riporta la notizia dell’esistenza di una chiesa ancora attiva. Trent’anni dopo invece, leggendo un altro resoconto di una visita pastorale, si apprende che la chiesa è distrutta e che l’abitato di Cugnano è completamente disabitato (totaliter destructa est, et in loco deserto et disabitato”).

Castiglion Bernardi

Notizie storiche

Una vasta porzione di territorio, incentrato nella vallata del Cornia, ma esteso a tutte le colline circostanti, a Nord fino all’attuale Monterotondo, ed avente per confine il fiume Cecina ad Ovest ed il Pecora ad Est, a partire dal VI secolo viene identificata con nomi che successivamente sono:  ‘Waldum regis’, “Waldo Domni Regi”, ‘Gualdo del Re’  (dove  “wald”, da matrice germanica, significa  Bosco), al centro del quale sorgeva un abitato intorno alla chiesa di S. Regolo ed un insediamento militare longobardo che forniva i soldati per la guarnigione di Castelione (oggi Castiglion-Bernardi), punto di controllo della strada che collega la zona del populoniense con il volterrano (la stessa già attiva in epoca etrusca) e che costeggia per lungo tratto il fiume Cornia.

Il Prisco (1998) si spinge a ritenere che questa struttura fosse stata precedentemente utilizzata dai bizantini, proprio a difesa dalle invasioni gote e longobarde; inoltre assegna a questo sito il primato del più antico toponimo noto, relativo ad un insediamento di una struttura fortificata altomedievale.
Comunque, risulta di proprietà di San Pietro in Palazzolo al 24 Maggio del 770, sebbene sia nota la sua appartenenza fin dalla fondazione dell’abbazia.
Insieme alla chiesa di San Regolo, queste due istituzioni esercitarono fino al XI secolo il loro controllo sul territorio Cornino, che, a partire da Monteverdi e San Regolo, si estendeva fino all’attuale Follonica e che comprendeva le località di Castiglion Bernardi, San Regolo, Paterno, Paganico, Buriano, Pastorale, Teupascio, San Vito, San Petroso, Suvereto, Casalappi, Valle e Vignale e, nel IX secolo, assorbirà anche Tricase, Milia, Montioni e Casale Longo. 
Nell’823 il vescovo Gherardo di Lucca diede a livello due poderi posti in Castiglione, mentre si riservò la proprietà del monte stesso. Citato ancora come Castellione dall’882 ai confini del Cornino. Nel 901 il vescovo Pietro di Lucca cede a tale Bernardo il Poggio Castiglioni, da cui il nome successivo. 
Verso la fine del X secolo la corte di Castiglioni passò sotto il controllo degli Aldobrandeschi, potente famiglia di estrazione longobarda connessa con i vescovi volterrani, mentre risulta feudo dei Pannocchieschi dal 1138.
Nel Regestum Volterranum 278 e 506 relativo al 9 Agosto 1234 il castello risulta tra le proprietà dei conti Pannocchieschi.
Nel 1254, l’11 di settembre, il sindaco di Massa, Ranieri di Beccatuccio, prese possesso del castello e poggio, in virtù di un lascito fatto da Ugolino Galleana, vice domino di Massa.
Un atto del 1296 cita Castiglion Bernardi per una vertenza sui confini da parte dei Pannocchieschi (Cece, Carlo e Dino) e dei castelli di Monteverdi, Sasso, Leccia, Serrazzano. In un altro atto del 1316 i Pannocchieschi si sottomisero a Volterra con Castiglione ed altri possedimenti. 
Il 10 agosto 1322 Massa inviò un esercito guidato da Dino di Vanni ad occupare il castello per costringere i Pannocchieschi, proprietari, a firmare la pace, atto che fu ratificato l’11 di settembre. Ma già il 30 giugno 1329 i conti sottomisero il loro castello, insieme con i parenti di Travale, Castel di Pietra e Perolla, alla signoria e “paternitas” del Comune di Siena.
Forse l’ultimo atto pubblico è del 1355 in cui Carlo IV conferma alla chiesa volterrana la metà di Castiglion Bernardi.
Il Castello fu interamente distrutto dai Pisani verso la metà del XIV secolo ed il suo poggio venduto dai Belforti alla nobile famiglia Petroni di Siena.
Il testo del Transano (2000), offre la completa genealogia della famiglia Pannocchieschi di Castiglion Bernardi, ramo del lignaggio Pannocchieschi che trae origine da Guglielmo (morto nel 1263) ed, attraverso articolate discendenze, si conclude con Bernardino di Ciarlo (dato già morto nel 1348).
Risulta che nell’abitato fosse compresa una Chiesa dedicata a San Michele; il Gherardini, nella sua Visita a Monterotondo del 1676, peraltro, afferma essere San Regolo la chiesa pievana del castello in oggetto, tuttavia dagli atti della Diocesi di Volterra risulta essere stata la Pieve di San Giovanni Battista di Lustignano.
Il Prisco, nel suo Castelli e Potere, mette in rilievo come Castelione sia stato, intorno al X secolo, al centro di notevoli contese tra ‘grandi’ dell’epoca: il vescovado di Lucca, da lungo tempo amministratore del Cornino; il vescovado di Volterra con mire espansionistiche verso la costa; il nascente comitato Aldobrandesco, successivamente vincente nella disputa. Essendo Castelione di competenza dell’abbazia di San Pietro di Monteverdi, gli Aldobrandeschi arrivarono a presentare carte di proprietà false, pur di allungare le mani sull’abbazia e sul castello, considerati la chiave di volta dell’intero Cornino.   
Infine una curiosità: nello Statuto del Comune di Monterotondo del 1578 viene destinata tutta la produzione olivicola di Castiglioni al mantenimento della lampada del santissimo sacramento presente nella veneratissima Chiesa di San Lorenzo, patrono e protettore del Castello. Non è motivata questa particolare scelta, ma ciò accredita l’esistenza già all’epoca di un oliveto.
 

Il fantasma di Castiglion Bernardi
"La Nencia"

Nei dintorni di Monterotondo Marittimo, domina la Val di Cornia  e il castello  Castiglion Bernardi. Il castello era abitato dalla  giovane Gigliola, una fanciulla davvero molto bella, lineamenti delicati, sensuale e attraente,  portamento regale. Gigliola non era solo bella, ma anche saggia e dotata di un animo buono, dolce e sensibile. 
Giovane che si era perdutamente innamorata di Valfredo, un baldo cavaliere nobile e valoroso, nonché suo promesso sposo. 
Finalmente Gigliola poteva coronare il suo sogno di avere una famiglia: lei che era orfana di madre e che aveva un padre sempre assente. 
L'unico grande riferimento era  la buona e vecchia Nencia, la  nutrice, la confidente, la donna che l’amava teneramente come una figlia. 
Nonostante Gigliola fosse promessa sposa,  su di lei aveva messo gli occhi il crudele e malvagio Conte Pannocchieschi la cui famiglia, per volere di Arrigo IV, si trovava a dividere Castiglion Bernardi con i nobili Belforti di Siena cui Gigliola apparteneva.Un giorno il conte costrinse la ragazza ad un appuntamento  minacciando di morte tutti i suoi cari e soprattutto Valfredo. Disperata, Gigliola corse a raccontare tutto alla cara nutrice. Nencia decise infine di sacrificarsi per la sua figlioccia tanto amata e stabilì che si sarebbe recata lei stessa all'appuntamento: tanto tra l’oscurità e i veli di cui si sarebbe ammantata sarebbe riuscita a trarre  in inganno il terribile Pannocchieschi. Nel frattempo Gigliola e Valfredo sarebbero fuggiti lontano. 
Nonostante il buio e tutti quei veli addosso, Nencia non riuscì a trarre in inganno il Conte. 
Morì cadendo a terra pugnalata senza alcuna pietà. Il suo sacrificio, però, non era stato vano. I due giovani erano in salvo e Massa Marittima, accorsa in aiuto dei Belforti, in breve tempo sottomise i Pannocchieschi della zona e il 10 agosto 1332 occupò anche Castel Bernardi. In Maremma da allora si tramanda una leggenda: tra i ruderi dell’antico castello si aggiri una figura misteriosa, tutta avvolta in impalpabili veli, figura che oramai convive con Monterotondo Marittimo e i suoi dintorni.È il fantasma di Nencia, la vecchia nutrice di Gigliola, colei che si sacrificò in nome dell'amore. 

 I. Falchi - Trattenimenti popolari sulla storia della Maremma... - Rist. anast. Forni 1974
 E. Fiumi - L’utilizzazione dei lagoni boraciferi della Toscana... -  Carlo Cya - Firenze 1943
 G.E. Franceschini - Lo Statuto del Comune di Monterotondo del 1578  - Il Leccio 1997
 S. Galli da Modigliana - Memorie storiche di Massa M. - 1871
 B. Gherardini, Visita fatta a Monterotondo nel 1676 -Archivio di Stato - Siena
 E. Lombardi - Monterotondo Marittimo, storia e territorio -  Il Leccio 1997
 G. Prisco - Castelli e Potere nella Maremma grossetana ... - Innocenti - Grosseto -1998
 E. Repetti - Dizionario geografico, fisico e storico della Toscana  - Firenze 1839
 F. Spini - Visita fatta a Monterotondo nel 1598 - Archivio di Stato - Siena  
 G. Targioni Tozzetti - Relazione d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana - Firenze 1751
 V.A. Transano - La famiglia nobile rurale della Toscana Meridionale - Editrice Leopoldo II, Follonica 2000


Monteleo, le cave e lo stabilimento dell’allume

Località e cava di allume di epoca medievale (forse da periodo etrusco, avvalorato da reperti di tombe conservati presso il museo di Massa); a circa 10 km ad Ovest da Monterotondo, lungo la statale 398, in prossimità del torrente Risecco. Etimo composito da nome di persona germanica, Leo.
Innanzitutto è utile chiarire di cosa si stia trattando, sia a causa dello scarso uso attuale di tale prodotto, che per motivare la produzione all’epoca.
In chimica vengono chiamati ‘allumi’ i solfati doppi (di due metalli) e ne esistono diversi: l’allume di potassio ed alluminio, detto ‘allume di rocca’, è bianco ed usato in tintoria, per la produzione della carta, come disinfettante ed emostatico; quello di cromo e potassio si usa come mordente e nella concia delle pelli.
Gli autori a cui si fa riferimento non sono mai stati precisi in proposito, ma da esami effettuati è possibile affermare che quelli qui presenti siano minerali di ‘allumite’, (più correttamente indicati come alunite) con elevata percentuale di allume di rocca.
In epoca arcaica era già in uso. Successivamente in periodo romano proveniva in prevalenza dalla Focea, in Asia minore, che nel medioevo fu in mano bizantina e poi dei genovesi. A seguito della conquista turca di Costantinopoli e nel periodo del Magnifico Solimano divenne praticamente impossibile l’importazione.
Verso la fine del XIII secolo si ricominciò ad estrarre e commercializzare l’allume del volterrano, comprendente questo sito.


Notizie storiche

Nella vendita fatta da Donna Orrabile degli Alberti, del fu Rinaldo, al Comune di Massa nel 1284, sono citate varie proprietà tra cui le cave di allume poste intorno a Castiglion Bernardi; di queste non sono giunte notizie precise sulle modalità di sfruttamento.


Il Gherardini riferisce che all’epoca della sua visita (1677) le cave erano inattive, ma che lo erano state precedentemente, nel 1667 quando il Serenissimo Granduca concesse facoltà di potere scavare; l’attività però durò solo due anni poiché la vena era povera e le spese maggiori del ricavo.
Il Pecci (1758) afferma che: “... nel 1740, un certo Widò, che si pose a fare uso di questa cava, prometteva, nel principio, gran cosa, ma in poco tempo, carico di debiti e vergognoso, prese la fuga e la cava dell’allume si dimesse”.
Il Targioni (1770) ci offre un’interessante relazione sulla tecnologia utilizzata per l’estrazione e la separazione del prodotto finito, nonché sui sistemi di trasporto.
L’autore dedica circa 100 pagine a questa impresa industriale e ciò che risulta di particolare pregio non è solamente la descrizione delle tecnologie ma anche l’organizzazione del lavoro con il dettaglio di ogni attività; si va dal numero e tipologia di attrezzi al numero di ‘sacconi’ utilizzati per i pagliericci dei lavoranti, fino alla contabilità di ogni particolare; ne emerge uno spaccato di vita sociale di metà del secolo XVIII che può costituire una interessante indagine antropologica.
Il sito viene indicato con estrema precisione e ne viene anche citato uno ulteriore, posto a mezza costa sulla collina (chiamata Mallonica), esattamente di fronte alla cava indicata, dall’altra parte del Risecco; qui però l’escavazione avveniva in galleria.
L’autore citato spiega anche il motivo dell’esistenza di questi due siti, poichè ritiene trattarsi di un’unico poggio che il costante lavorìo delle acque del Risecco avrebbe tagliato in due.
Sempre nella relazione risulta che l’escavazione avveniva a cielo aperto tramite mine; queste erano realizzate in maniera totalmente manuale percuotendo con le mazze su scalpelli progressivamente più lunghi: 75, 150, 175, 200 o 250 cm; l’operazione veniva condotta da due operai, uno che azionava la mazza e l’altro che, stringendo in mano lo scalpello, detto “gucchia o agucchia” lo faceva leggermente ruotare tra un colpo e l’altro (lo stesso principio del trapano a percussione attuale, salvo per l’energia utilizzata).
Una volta realizzata la perforazione alla profondità voluta, vi si introduceva la polvere nera (la dinamite verrà solo nel 1866), che veniva compressa con un bastone ed una mazza, e lasciata fuoriuscire per un breve tratto.
Al momento desiderato per l’esplosione, una persona esperta lanciava da lontano un tizzone che dava fuoco alla mina.
Dopo il brillamento gli operai ‘fenditori’ provvedevano a spaccare i massi più grossi ed il ‘capitore o capamasso’ effettuava la cernita tra il minerale utile o lo scarto ed il primo veniva avviato ai forni di cottura.
Ci viene indicato anche il sito di queste fornaci, dove attualmente si possono ancora riconoscere bene i ruderi ed intuirne forme e funzione; una era a breve distanza dalla cava, sullo stesso lato, l’altra, a ridosso della Mallonica; evidentemente ciascuna serviva le due differenti miniere.
Il procedimento per l’estrazione dell’allume era analogo a quanto si faceva per la produzione della calce per uso edilizio; una prima fase di calcinazione ed una successiva di lisciviazione: in pratica le pietre venivano cotte nei forni sopra grosse quantità di legna, poi, una volta terminata la cottura e raffreddate, venivano messe in buche nel terreno e innaffiate abbondantemente d’acqua. Con questo sistema la pietra, dapprima faceva reazione emettendo acqua calda e bianca, poi, asciugandosi, si sgretolava facendo uscire una sostanza viscida e bianchiccia che veniva lasciata a maturare per circa venti giorni.
Successivamente veniva estratto tutto il liquido e quindi condensato dentro grandi caldaie di rame sotto le quali ardeva il fuoco.
L’allume, confezionato in pani, veniva trasportato fino al porto di Baratti (circa 40 km) con i cavalli e da lì proseguiva via mare per le destinazioni; è interessante sapere che per il trasporto si adoperavano 100 cavalli da soma che impiegavano circa 2 giorni tra andata e ritorno e che nel viaggio di ritorno trasportavano tutto il necessario all’impresa: ferri, cordami, viveri e specialmente la pozzolana, utilizzata per il rivestimento interno dei forni, che andava frequentemente sostituito.

Esistono piante e vedute dell’Opificio dell’allume, datate 1760-1765, sebbene di scarso significato perché sommarie e realizzate ad una scala praticamente inutilizzabile.

Deduzioni

Le notizie precedenti ci forniscono informazioni sulla tecnologia dell’epoca, sulla organizzazione del lavoro e sistemi di approvvigionamento e smercio, ma, indirettamente, anche dei supporti per stime (approssimative) sulla entità del personale impiegato e sulle necessità abitative.
Per gestire efficientemente 100 cavalli non si potevano impiegare meno di 10 uomini a tempo pieno per attività di conduzione, alimentazione, ferratura, bardatura, carico e scarico merci.
Tra l’altro è presumibile che, tra un viaggio a Baratti e l’altro, i cavalli venissero utilizzati per il trasporto del legname da ardere necessario alle due fasi di riscaldamento, che doveva essere molto.
Inoltre, poichè i cavalli portavano da Baratti anche i viveri, e non esistendo all’epoca validi sistemi di conservazione delle derrate deperibili, non è ipotizzabile meno di un viaggio ogni 2 settimane, o due viaggi con 50 cavalli alla volta.
Considerando che su di un percorso di 40 Km in una giornata un cavallo può trasportare solo un massimo di 80 Kg senza conseguenze, si può stimare un carico complessivo di circa 8.000 Kg, cioè 8 t di allume (è verosimile ?).
Per produrre 8 t di allume cristallizzato, di quanto in forma liquida era necessario? E quanto minerale doveva essere cotto? La variabilità del prodotto utile nel minerale e le tecniche artigianali di lavorazione non consentono calcoli attendibili, ma è certo che il minerale lavorato doveva essere in quantità considerevole.
Non lascia dubbio la batteria di forni di cottura presente sul lato della strada, e quella ancora più lunga al di là del Risecco, subito sotto alla cava.
Tuttavia i tempi morti di utilizzo di un forno (carico legna, carico minerale, raffreddamento, scarico ceneri, saltuario rifacimento del rivestimento refrattario) erano maggiori di quelli di attività (combustione, scarico minerale), poiché la tecnologia dell’epoca non consentiva un ciclo continuo.
Ma si può ipotizzare che almeno due forni fossero attivi contemporaneamente per ciascuna batteria, mentre per i restanti fossero in corso le altre fasi di lavorazione, con diverse persone che li accudivano.
Altri operai dovevano lavorare intorno ai bacini di idratazione (carico/scarico, prelievo liquido); altri ancora lavoravano alle grandi caldaie (carico, rifornimento legname, mantenimento del fuoco fino a cristallizzazione, scarico del prodotto, rimozione ceneri).
Inoltre si devono considerare anche i minatori, gli spaccapietre, gli addetti al trasporto del minerale fino ai forni; tutto ciò nei due differenti siti.
In più, e ciò viene riferito dall’attento Targioni (1770), vi era anche il personale amministrativo e direttivo, che però alloggiava nell’edificio del Bagno del Re, nella piana del Frassine, ristrutturato per l’uso.
Considerato tutto ciò, è verosimile che non vi fossero meno di 100 persone al lavoro, ma probabilmente anche il doppio, tenendo conto della modesta tecnologia dell’epoca.
Ciò presuppone l’esistenza di un numero adeguato di alloggi, benché all’epoca i diritti dei lavoratori non fossero nemmeno un sogno; tuttavia, anche se in grandi camerate, con semplici pagliericci, e magari a turno, vi doveva essere un luogo ove fare riposare i lavoratori e ristorarli nemmeno troppo sommariamente (ad evitare morti premature).


Stato attuale e visita

Lungo la S.S. 398, che collega Monterotondo con Suvereto, a breve distanza dalla località Frassine, e poco oltre il km 13, si trova una curva a gomito molto stretta; sul lato destro è presente uno spiazzo con un sentiero che va direttamente a guadare il vicino Rio Secco.
Il sito di interesse si trova nella proprietà privata relativa al podere Monteleo, del Dr. Corica.
Attraversato il corso d’acqua e svoltando subito a sinistra, si percorre un viottolo che in un centinaio di metri arriva ad incontrare sulla destra una rupe da cui scende una notevole quantità di massi, risultato dell’attività di escavazione.
Arrampicandosi con attenzione sopra ai massi, si giunge fino sotto alla rupe in cui si effettuava il brillamento delle mine; sono ancora ben visibili numerosi fori fatti nella roccia a questo scopo, ed alcune tracce sulle pietre circostanti a terra.
Con un po’ di pazienza si riescono a rintracciare nella roccia della rupe alcune venature in cui le acque meteoriche hanno sciolto e condensato l’allume; il minerale si presenta come una polvere cristallina biancastra, leggermente untuosa al tatto e con un caratteristico odore penetrante e leggermente acido.

A breve distanza dalla cava, più in basso rispetto al sentiero di accesso, è rinvenibile una batteria di forni di cottura che provvedevano a questa fase del metodo produttivo. Questi erano adibiti al trattamento del minerale della cava ed attualmente risultano alquanto degradati.

Tornando sui nostri passi, e percorrendo circa una cinquantina di metri lungo la S.S. in direzione Frassine, si identifica facilmente un’altra batteria di forni di cottura; il migliore stato di conservazione di questi (sebbene non ottimale) rispetto agli altri, consente una accettabile lettura delle forme e delle funzioni; sono visibili sia le camere di cottura che i camini dei fumi.
Quasi associati ai forni, ed affacciate verso il Risecco, sono presenti ruderi che potrebbero identificarsi con gli alloggi, le cucine, i magazzini e le stalle dell’impresa; non compare quasi nulla in alzato e le strutture sono praticamente al livello del piano di calpestio; le dimensioni sembrano compatibili alle ipotesi fatte.
Poco oltre, in riva al Risecco, sono rintracciabili spiazzi e muretti che testimoniano un’intensa attività lavorativa.
Su questo sito è in corso uno scavo archeologico dell’Universita’ di Siena e la sua valorizzazione a scopo turistico.

La miniera di lignite di Riopiastrello


Localizzazione e toponimo


Montebamboli è una frazione di Massa Marittima, situata a circa 8 Km ad Ovest, su di un crinale di collina, attualmente con poche fattorie abitate.
Circa il toponimo inconsueto, l’etimo deriva da Munte at Panchule, citato già in un atto ufficiale di acquisto dell’VIII secolo di un certo Tanualdo, rettore della chiesa di S. Regolo; di non chiaro significato (forse dal volgare arcaico, dove ‘Panchule’ deriverebbe dal latino ‘Paniculae’, cioè pannocchie, i fiori delle canne, e quindi ‘Monte alle pannocchie’; oppure da ‘Pancole’, come una contrada di S. Miniato, in riferimento ad un tempio del dio Pan, un tempo ivi presente) corrottosi successivamente nell’attuale accezione.
Ovviamente, nel secondo caso, sarebbe molto interessante verificare l’utilizzo del sito già in epoca romana e gli eventuali resti del tempio.
Di recente si è venuti a conoscenza di una località nel comune di Scansano di nome ‘Pancole’ di cui, peraltro, al momento è ignota la derivazione.



Giacitura e genesi



Nel 1839 il chimico V. Manteri scoprì un giacimento di lignite nella tenuta di Montebamboli.
Dal punto di vista geologico si tratta di argille lignitifere di ambiente lacustre del Miocene superiore (Messiniano, 10-7 milioni di anni fa’). Questi bacini lacustri hanno avuto origine da fenomeni di subsidenza durante l’evoluzione tettonica e successivamente ricoperti dalla deposizione dei sedimenti neoautoctoni.

La miniera



Nel 1843 fu fondata la ‘Società Anonima Carbonifera Livornese S.p.a.’ nel clima generale di grande stimolo allo sviluppo e di recupero del degrado sociale ed economico, voluto dal granduca Leopoldo II di Lorena, per lo sfruttamento di questa risorsa energetica.



Dalla metà del 1800 fino al secondo decennio del ‘900, Montebamboli si trovò al centro di un’intensa attività di estrazione, stoccaggio e trasporto di lignite, presente in alcuni banchi localizzati a nord, in prossimità dei corsi d’acqua Riotorto e Riopiastrello.

Fino dall’inizio dell’attività della miniera si riscontrò la difficoltà di collegamenti con la rete viaria dell’epoca, che veniva risolto unicamente con trasporti effettuati con il basto dei muli “ ... per viottoli che divengono corsi d’acqua durante le piogge, e sono spesso impraticabili...”.
Allo scopo di superare questo problema si decise di realizzare una apposita strada ferrata che iniziò a funzionare dal 1849 e, con un percorso di 26 Km, consentì il trasporto, oltre al carbone, anche di legname, derrate e materiali per la miniera, personale e passeggeri, dall’entroterra verso la costa e viceversa.
Il minerale raccolto, veniva trasportato fino a Torre Mozza, in una località, attrezzata con un pontile di attracco per il carico delle navi, che prese il nome di Carbonifera.
I convogli erano trainati da cavalli e muli; il primo tratto, dalla miniera alle stalle (in località Calzalunga) era effettuato per gravità, dato il dislivello a favore.
Della ferrovia restano numerosi resti di ponti, massicciate e trincee, mentre non c’è più traccia di traversine, rotaie e materiale rotabile perchè sicuramente ‘riciclato’ durante l’ultima guerra.

Nella miniera avrebbero dovuto essere occupati circa 700 operai (questo era il numero teorico presentato al Governo per una richiesta di prestito), ma in realtà ne lavorarono solamente un centinaio (di cui solo una cinquantina addetti allo scavo) e ciò comportò la costruzione di un piccolo insediamento di circa 20 edifici, per abitazioni, uffici, magazzini, etc. realizzato sulla sponda Sud del Riotorto, proprio in prossimità di alcuni pozzi di accesso alla miniera; ad oggi del villaggio rimangono solamente i ruderi in mezzo alla macchia.
Le condizioni di lavoro erano molto dure, trattandosi di estrazione totalmente manuale, con turni da 8 a 12 ore, alla debole luce di lampade ad acetilene, con temperature di 30°, 40° C, in un ambiente molto arido, in cunicoli strettissimi, ad una profondità che arrivava fino a 250 m e senza sistemi di aereazione. Solamente nell’ultimo periodo di attività fu installata una macchina a vapore per l’estrazione dei materiali e delle acque.
La discesa e risalita era effettuata tramite un argano azionato da cavalli, a cui era fissata una corda con una botticella; il tempo impiegato tra andata e ritorno arrivava a ben 40 minuti.

Le zone di estrazione erano due: una già citata in riva al Riotorto, con numerosi pozzi, che seguivano differenti filoni di spessore variabile da 60 a 150 cm; una seconda (avviata dal 1844) a circa 1 km a nord, in prossimità del Rio Piastrello, anche qui con numerosi pozzi, e forse era quella di maggiore produzione (presumibile dalle dimensioni e dalla solidità delle strutture murarie messe in opera all’imboccatura di 2 pozzi). In questa seconda sono ancora ben riconoscibili i piazzali di carico del minerale, i ruderi di abitazioni e/o magazzini ed il tracciato ferroviario.
Attualmente solo alcuni brevi tratti iniziali di un paio di pozzi sono accessibili e ... con prudenza! Tutto il resto è allagato o franato.
In alcuni siti si riscontrano in superfice tracce di affioramenti di minerale scarsamente importanti; quà e là nei pressi delle zone di estrazione si trovano depositi di scarti.

Vi sono notizie contrastanti circa la qualità (diversi scienziati avevano espresso pareri in antitesi anche sulla classificazione: come ‘lignite’ o, invece, come ‘litantrace’) e l’utilizzo del carbone; alcune fonti affermano che fosse di buona qualità e che quindi possa essere stato impiegato nelle Fonderie Granducali in Follonica (scopo iniziale dell’estrazione); altre fonti più attendibili invece sostengono che, per l’alto tasso di zolfo, il combustibile non risultasse utilizzabile nelle fonderie, ma solamente per le caldaie delle navi e per la produzione del gas da illuminazione.
Comunque a partire dal febbraio 1854 la miniera produsse a pieno ritmo; mancano, purtroppo, informazioni sulla quantità annua di minerale estratto, trasportato e caricato sulle navi; così pure sui costi (tanti) ed i ricavi (pochi).

I forti costi sostenuti dalla società per la realizzazione della ferrovia incisero pesantemente sulla gestione della miniera, tanto che nel 1861 i debiti contratti con i vari finanziatori sfociarono in un procedimento di fallimento che costrinse all’inattività per molti anni.
L’attività estrattiva sembra si sia fermata nel 1887 a causa delle acque che avevano invaso le gallerie; tuttavia il Lombardi afferma che l’estrazione fu ripresa (da parte della Ferromin del gruppo ILVA) nel 1914, per terminare definitivamente nel 1919; la ferrovia, invece, avrebbe continuato la sua attività fino al 1916 circa, trasportando passeggeri e merci varie.

I fossili



Fin dall’inizio dell’attività estrattiva vennero rinvenuti molti fossili di flora e fauna, inclusi nel carbone, tra cui i più interessanti erano i progenitori degli attuali: antilope, cinghiale, donnola ed altri tipici dell’ambiente mediterraneo dell’epoca di formazione del deposito carbonifero.
Nel 1869-1870 si verificò nella miniera un evento eccezionale che ebbe, e continua ad avere, una importanza considerevole per l’ambiente scientifico; furono riconosciuti alcuni resti fossili di un primate del Miocene superiore (8-9 milioni di anni fa’) che successivamente fu battezzato ‘Oreopithecus Bambolii’ (cioè Piteco del monte di Bamboli). Il nostro Oreopiteco era una specie sconosciuta e con caratteristiche che ancora oggi sono oggetto di studio e di ipotesi contrastanti da parte di alcuni paleontologi. Tutti gli studiosi sono comunque concordi sul fatto che non si tratta di un ominide nostro antenato, bensì di un ramo di primati evolutosi separatamente ed in seguito estintosi.

Bibliografia


La via del carbone - ASE Trekking & Archeologia- Suvereto-Provincia di Livorno - 1992 ?
- Guida della Maremma Grossetana - Le colline metallifere - Sansoni Editore - 1987
- Dizionario storico della Toscana - E. Repetti - Firenze 1839
- La Maremma grossetana tra il ‘700 e il ‘900 - Ist. Alcide Cervi - Labirinto Editrice
- La ripresa dell’attività mineraria nella Maremma Granducale (1815-1848) - Stefano Vitali
- Massa Marittima ed il suo territorio ... - E. Lombardi - Cantagalli Ed.- Siena

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